mercoledì 30 luglio 2008

Epilogo giudiziario per il delitto di Cogne


Il fatto:
Il 30 gennaio 2002, il piccolo Samuele Lorenzi viene assassinato con 14 colpi alla testa.

Il caso si presenta subito molto complesso data l'assenza di prove certe.

I dati inoppugnabili dell'inchiesta comunque sono cinque:

1) l'omicidio del piccolo Samuele;

2) la camera da letto dei coniugi Lorenzi come luogo del delitto;

3) al momento dell'aggressione samuele era sveglio;

4) il corpo del bambino ritrovato da Annamaria Franzoni;

5) la visita, a seguito della chiamata telefonica della Franzoni, la mattina dell'omicidio di una vicina di casa, tale Daniela Ferrod .

Iter giudiziario:
31 gennaio 2002 - La prima sospettata, Annamaria Franzoni, viene interrogata dal pm Stefania Cugge per tre ore. Le tredici persone che entrarono in quella casa a Montroz nel momento successivo alla scoperta del delitto saranno sentite come testi nell'arco di un mese
14 marzo 2002 -Annamaria Franzoni viene arrestata. Il Gip di Aosta, Fabrizio Gandini, rileva come dalle indagini svolte dai Pm di Aosta e dai carabinieri di Cogne e del Ris di Parma emerga un quadro indiziario a carico della madre del bambino.
30 marzo 2002 - I giudici del tribunale del riesame di Torino restituiscono la libertà alla Franzoni accogliendo il ricorso dell'avvocato Carlo Federico Grosso. L'avvocato della difesa avvalendosi della consulenza medico-legale del professor Carlo Torre, uno dei più noti medici legali italiani, aveva contestato l'accusa. Secondo i giudici torinesi solo una piccola parte degli esiti delle indagini preliminari avrebbe una effettiva valenza indiziaria.
10 giugno 2002 - I giudici della prima sezione penale della Cassazione annullano l'ordinanza del Tribunale del riesame di Torino accogliendo il ricorso presentato dalla Procura di Aosta. Gli atti del processo vengono rinviati allo stesso Tribunale di Torino per un nuovo esame della vicenda.
25 giugno 2002 - L'avvocato Carlo Federico Grosso lascia la difesa di Anna Maria Franzoni in seguito alla decisione della famiglia Lorenzi di nominare anche il professor Carlo Taormina come secondo difensore.

19 settembre 2002 - Il Tribunale del riesame di Torino "ripristina" l'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Carlo Taormina ricorre in Cassazione e ottiene che Annamaria Franzoni rimanga libera.
27 gennaio 2003 - Anna Maria Franzoni diventa di nuovo mamma.
31 gennaio 2003 - La quinta sezione penale della Cassazione annulla con rinvio, limitatamente alle esigenze cautelari la seconda ordinanza del Tribunale del riesame. Secondo la Corte suprema i gravi indizi di colpevolezza a carico della donna, ma non sono adeguatamente motivate le esigenze cautelari.

10 febbraio 2003 - Il gip di Aosta Fabrizio Gandini revoca il provvedimento di cattura, ritenendo superate le esigenze cautelari, e ''solleva'' cosi' il Tribunale del riesame di Torino dall' onere di occuparsi per la terza volta della vicenda .

3 luglio 2003 - La Procura di Aosta chiede il rinvio a giudizio di Annamaria Franzoni. Si concludono così le indagini preliminari. L'imputata è accusata di omicidio volontario aggravato.

16 settembre 2003 - L'udienza preliminare è affidata al giudice Eugenio Gramola, il quale dispone una serie di superperizie, la più importante delle quali sulle tracce ematiche rilevate sul pigiama di Anna Maria Franzoni. La perizia è stata fortemente voluta dall'avvocato Taormina. All'udienza preliminare si presenta solo Stefano Lorenzi, marito della Franzoni .
23 aprile 2004 - Si conclude la perizia del professor Herman Schmitter di Francoforte. L'esperto conferma la consulenza tecnica dei carabinieri del Ris di Parma. Dalle analisi emerge che l'assassino del piccolo Samuele indossava il pigiama azzurro di Annamaria Franzoni.
19 luglio 2004 - Il giudice per le udienze preliminari Eugenio Gramola accoglie le richieste dell'accusa e condanna Anna Maria Franzoni a trent'anni di carcere. Il Gup pronuncia la sentenza di primo grado con rito abbreviato, come chiesto dalla difesa .
30 luglio 2004 -Parte l’inchiesta chiamata Cogne bis. L’avvocato Taormina fa arrivare alla Procura generale di Torino la controperizia con nuove prove scientifiche che proverebbero la presenza di un’altra persona nella villetta: il vero assassino di Samuele secondo la difesa. L’esposto-denuncia è firmato da Annamaria Franzoni e dal marito Stefano Lorenzi. Secondo i periti della difesa le macchie sul pavimento del garage e un'impronta digitale sulla porta della villa svelerebbero l'identità del vero assassino. a parte lesa è Ulisse Guichardaz guardaparco di Cogne, accusato dalla Franzoni di essere l'assassino del piccolo Samuele. La nuova inchiesta viene affidata ai pm Annamaria Loreto e Giuseppe Ferrando, coordinati dal procuratore capo Marcello Maddalena. Torino invia gli atti per competenza ad Aosta.
31 ottobre 2004 - Il gip Piergiorgio Gosso incarica sette periti, tra cui due esperti americani dell'Fbi, Richard Vorder Bruegge e Brendan Shea di una nuova perizie.
2 novembre 2004 -Carlo Taormina è indagato dalla Procura di Torino per le ipotesi di reato di calunnia e frode processuale. Sono indagati anche i coniugi Lorenzi, i consulenti della difesa Enrico Manfredi e Claudia Sferra e l'investigatore privato Giuseppe Gelsomino. L'obiettivo dei magistrati è chiedere una superperizia per dare una configurazione temporale alle impronte e alla tracce all'interno della villetta di Cogne e definire se sia stata compiuta una frode processuale da parte dei consulenti della difesa di Annamaria Franzoni .
3 novembre 2004 - L'avvocato Taormina presenta a Roma i motivi di appello contro la sentenza del Gup di Aosta Eugenio Gramola. "Abbiamo incentrato l'impugnazione - ha detto il penalista - sui dieci punti indicati dalla procura di Aosta, otto dei quali definiti non indizi dallo stesso gip, con particolare riferimento ai due elementi che, secondo l'accusa, dimostrerebbero la responsabilità della Franzoni: il pigiama e gli zoccoli. I periti della Difesa-Taormina, finiti nel registro degli indagati, querelano i periti della Procura di Aosta per calunnia.
24 dicembre 2004 - La procura di Torino, che ha ricevuto il rapporto della polizia scientifica di Roma, accerta che le impronte trovate nel luglio scorso nella villetta di Cogne appartengono a uno dei quattro consulenti svizzeri della difesa di Anna Maria Franzoni.
31 aprile 2005 - Si conclude l'udienza su incidente probatorio per l'inchiesta Cogne-bis, con la nomina di 28 periti, di cui 7 per il giudice e gli altri tutti di parte.
21 settembre 2005 - I periti nominati dal gip di Torino accertano che le macchie trovate nel garage della villetta non sono di sangue .
26 settembre 2005 - La Franzoni annuncia di volere un processo aperto con i giornalisti e le telecamere
26 ottobre 2005 - Anna Maria Franzoni in un'intervista a ''Gente'' dichiara: "Chi ha ucciso Samuele? Un voyeur o un feticista puo' essere entrato nella mia camera da letto, dove ha trovato mio figlio. Il resto, potete immaginarlo" .
15 giugno 2006 - Viene depositata una nuova perizia psichiatrica sulla Franzoni: per gli esperti la donna soffre di uno "stato crepuscolare di coscienza", che può portare a rimuovere alcuni eventi. In caso di condanna, se dovesse essere dichiarata seminferma di mente, godrebbe di uno sconto di pena.

20 novembre 2006 - Durante l'udienza del processo d'appello l'avvocato Taormina rinuncia alla difesa per "una sommatoria di situazioni". Per Taormina gli inquirenti avrebbero anche voluto un accordo con la donna per chiudere il processo con una perizia sulla seminfermità. Viene nominato l'avvocato d'ufficio Paola Savio.
13 dicembre 2006 - Taormina chiede alla Cassazione di trasferire il processo a Milano a cuas del 'clima sfavorevole' e 'non sereno' delle udienze torinesi. Il 20 febbraio 2007 ci sarà una pronuncia negativa in tal senso.
6 febbraio 2007 - Annamaria Franzoni nomina di nuovo Taormina come difensore di fiducia.
4 marzo 2007 - Annamaria Franzoni nomina Paola Savio avvocato di fiducia e Taormina abbandona.
27 marzo 2007 - Nella requisitoria il pg Vittorio Corsi chiede di confermare la condanna di primo grado a 30 anni e chiede alla donna di 'pentirsi' e confessare annunciandole, in quel caso, un possibile sconto di pena. Il pg nel suo intervento parla scatto d'ira incontrollabile e individua l'arma in un oggetto (mestolo o padellino) in rame.
3 aprile 2007 - L'avvocato Paola Savio nell'arringa chiede l'assoluzione dopo un lungo e appassionato intervento e dopo aver avanzato l'ipotesi che l'assassino sia un estraneo. Arma del delitto sarebbe uno zoccolo in legno con suola in gomma e tomaia in gomma definito sabot dalla Savio. Per segnalare le possibili inimicizie tra i Lorenzi - Franzoni e i vicini Guichardaz Ferrod, l'avvocato Savio dice "ricordatevi di Erba".
20 aprile 2007 - Replica dell'accusa e prima parte dell'intervento di replica della difesa.
27 aprile 2007 - Annamaria Franzoni condannata a 16 anni di reclusione contro i 30 ai quali era stata condannata in primo grado
21 maggio 2008 È definitiva la condanna a sedici anni di reclusione per Anna Maria Franzoni, la mamma accusata di aver ucciso - a Cogne, il 30 gennaio 2002 - il figlioletto Samuele di due anni. La Prima sezione penale della Cassazione, dopo circa tre ore e mezzo di camera di consiglio, ha infatti confermato il verdetto emesso il 27 aprile 2004 dalla Corte di Assise di Appello di Torino. In questo modo la Suprema Corte ha accolto la richiesta fatta nella sua requisitoria dal magistrato più autorevole della Procura di Piazza Cavour, il sostituto procuratore generale Gianfranco Ciani. "Con umana pietà, ma con giuridica certezza" il Pg ha chiesto al collegio presieduto da Severo Chieffi di respingere il ricorso dei legali della Franzoni, Paolo Chicco e Carlo Federico Grosso. Secondo Ciani sono del tutto legittime le perizie che supportano la pronuncia di colpevolezza della Franzoni: il Pg non ha avuto nulla da eccepire sullo studio dei tracciati del sangue che, ha ricordato rispondendo alle obiezioni difensive, é un metodo usato in paesi "ad elevata democrazia giudiziaria" come Usa e Francia. Ciani ha difeso la perizia psichiatrica effettuata sulla Franzoni in appello sottolineando che "se l'imputata si è sottratta all'accertamento, non c'era altra via che valutare il suo comportamento sulla base del materiale disponibile: le interviste rilasciate dall'imputata, i test fatti in primo grado e le intercettazioni". Il pg ha, inoltre, convalidato gli esiti della perizia medica condotti su Samuele che certificavano la morte del bimbo come avvenuta prima dell'arrivo dei soccorritori in elicottero. Infine Ciani non ha dato alcun peso al fatto che l'ex avvocato della Franzoni, Carlo Taormina, avesse continuato a difenderla pur essendo coin-dagato con lei per frode processuale e avendo parlato negativamente della sua cliente al pm che aveva il fascicolo del ‘Cogne bis'. Per il Pg queste circostanze non hanno menomato il diritto alla difesa della mamma di Cogne dal momento che si tratta di elementi di un procedimento diverso da quello per l'omicidio volontario del piccolo Samuele. Vani sono stati dunque gli sforzi di Chicco e Grosso che avevano depositato un ricorso di 180 pagine e che hanno svolto, rispettivamente, arringhe di oltre un'ora e mezza. Senza successo i legali - subentrati alla difesa della Franzoni dopo la rottura con Taormina che in primo grado aveva portato a una condanna a 30 anni - hanno battuto il tasto sulla mancanza di un metodo a monte che certificasse l'utilizzo dello studio dei tracciati del sangue sulla scena del delitto (bloodstrain pattern analysis). Per Grosso il verdetto di appello è "carente di motivazione e connotato da contraddizioni: poggia sulle sabbie mobili e le prove scientifiche non reggono ad una analisi". Chicco ha puntato l'indice sul "diritto alla difesa della Franzoni, pesantemente calpestato durante tutto il processo d'appello". In aula è venuta anche la giovane avvocatessa Paola Savio, il difensore d'ufficio della Franzoni che subentrò a Taormina quando lui abbandonò il processo. Con il suo contributo, la mamma di Cogne aveva ottenuto la concessione delle attenuanti per lo stato di sofferenza mentale. Da non confondersi con l'incapacità di intendere e volere e con la seminfermità mentale: la Franzoni, questo ha rilevato il Pg Ciani, soffriva solo di depressione e ansia. Nulla di più, altrimenti non sarebbe stata in grado di "mettere in atto tutti gli accorgimenti usati per allontanare i sospetti da lei nell'immediatezza del delitto". Già nella serata di ieri la magistratura di Torino ha firmato l'ordine di cattura.
29-07-2008 La Suprema Corte statuisce che Annamaria Franzoni uccise con "razionale lucidità" il figlio Samuele, di 3 anni e 2 mesi, la mattina del 30 gennaio del 2002, nella casa di Cogne. In lei non vi era alcun "vizio di mente" ma una grande "preoccupazione nutrita per la salute di Samuele". Nelle 54 pagine di motivazione si spiega inoltre il perché, lo scorso 21 maggio, è stato respinto il ricorso di Annamaria Franzoni, chiudendo così definitivamente il sipario sul delitto del figlio Samuele. I giudici hanno confermato la condanna a sedici anni di reclusione nei confronti della donna.


Si riporta la massima della Cassazione penale del 29-07-2008 n. 31456


Omicidio – figlio – responsabilità madre – Cogne – sussistenza (art. 533 c.p.p.)
Cogne: una volta dimostrata l'assoluta implausibilità dell'ingresso di un estraneo nell'abitazione dove si è verificato l’omicidio, ed una volta esclusa la responsabilità degli altri membri della famiglia, l’unica possibile responsabile resta la madre (A. Franzoni).
Circa il modo di intendere il precetto secondo cui "il giudice pronuncia la sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio", va precisato che impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana.
I disturbi d'ansia con fenomeni di conversione somatica e caratterizzate da componenti isteriche, non rientrano, in quanto tali, nel novero dei soggetti classificabili come affetti da vizio di mente.

lunedì 21 luglio 2008

Laicità dello Stato e laicismo


Relazione tenuta il 19-04-2008 presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di S. Severo
(dott. Leonardo Mandunzio)




Premessa: La libertà di pensiero come presupposto della laicità

Il tema della laicità, con tutti i suoi aspetti più controversi, è tornato alla ribalta in Italia da quel fatidico 13 giugno 2005, data in cui i 4 referendum, promossi per l’abrogazione parziale della Legge n. 40/2004, che regola in Italia la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, non hanno superato il quorum, anche, grazie all’invito all’astensione fatto dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) agli elettori cattolici.
Da quel momento, si è scatenato un vero e proprio linciaggio mediatico ai danni della Gerarchia ecclesiatica, colpevole di indebita ingerenza ai danni della laicità dello Stato italiano.
Orbene, a questo punto due domande diventano improcrastinabili:
- Che cos’è la laicità?
- Quand’è che uno Stato può definirsi veramente laico?
Originariamente, con il termine laico si designava, il fedele cattolico, il battezzato, che non era né sacerdote né, tanto meno, religioso.
La “scristianizzazione” del termine anzi detto, si comincia ad avere con l’avvento degli Stati moderni, sorti su due pilastri: il culto della dea ragione e il mito della “morte di Dio”.
Per dirla con Eliot:” Essi hanno cercato di evadere dal buio esterno ed interiore sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono” (1)
Da quel momento il termine laico verrà, impropriamente, contrapposto a quello di cattolico, diventando sinonimo di neutralità ed indifferenza nei confronti della Fede.
Il termine laicista invece indica gli anticlericali tout court, coloro che negano il diritto alla Chiesa di esprimersi sui temi etici.
Il caso del Papa alla “Sapienza” di Roma è emblematico in tal senso.
Questa vicenda ha dell’incredibile poiché: mettere in condizioni una persona di non poter esprimere il proprio pensiero è contro la legge suprema su cui si regge lo Stato italiano.
Infatti ai sensi dell’art. 21, comma I, Cost.: ”Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”
Si da il caso che il Pontefice, non costituisca eccezione a questa regola.
Peccato comunque per quei 67 docenti universitari (2) i quali boicottando Benedetto XVI hanno dato una pessima prova di laicità, violando palesemente la Costituzione repubblicana.
Chissà cosa avrebbe detto al riguardo, Voltaire, il quale affermava: “Non condivido le tue idee ma combatterò fino alla morte per difendere il tuo diritto di esprimerle”.
Reprimenda a parte, resta il fatto che la condotta dei 67 docenti ha fomentato gli studenti di sinistra provocando scontri e disordini all’interno dell’Ateneo romano.
Questa triste vicenda insegna che, senza la possibilità di esprimere in modo libero il proprio pensiero, non ci può essere laicità.
Pertanto, a ragion veduta, contrariamente a quanto affermano i post sessantottini, non sono Benedetto XVI o il cardinale Ruini, con le loro esternazioni a minare la laicità dello Stato, ma a farlo, sono semmai quei laicisti imbevuti di quella cultura giacobina che regna sovrana nelle università italiane.




1. Dio e Cesare. La sana laicità

«Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio.» (Marco 12,13-17).
Di solito, questa frase viene estrapolata dal contesto evangelico e mutuata dai laicisti per affermare la separazione tra la sfera religiosa (Dio) e la sfera pubblica (Cesare).
In realtà, Cristo “legislatore”, in questo passo evangelico, pone sì il principio della dicotomia dei due piani: il giuridico e il fideistico, ma non certo per affermare una separazione (intesa come intangibilità delle due sfere e quindi indifferenza), quanto per stabilire l’articolazione strumentale tra il primo e il secondo piano.
Per avere il giusto equilibrio tra il religioso e il pubblico non importa che lo Stato (Cesare) assuma volto e natura etici e confessionali; non occorre cioè che Cesare sia un credente.
“E’ sufficiente che ogni singolo Stato rispetti, nella sua legislazione terrena, quelle esigenze della persona, dei gruppi, della comunità che sono indicate dalla loro stessa umanità di vita; ad esempio, la legge dello Stato non potrà consentire, senza intervenire con la norma indicativa e con la punizione adeguata, che una persona tolga la vita ad un'altra (qui si presenta sintomatico il campione concettuale della pratica abortiva); non potrà imporre la sterilizzazione umana; non dovrà esigere tributi vessatori unicamente per paralizzare l'esercizio di un tipo di libertà di associazione; e via dicendo” (3).
Date a Cesare significa date ciò che è giusto che Cesare chieda; ma Cesare ha, a sua volta, una regola naturale che deve osservare e, a dimostrazione macroscopica dei suoi limiti e per evitare che possano esservi dubbi su questo punto, non potrebbe ad esempio pretendere di sopprimere la vita delle persone coi capelli biondi perché sgradite al potere.
In ultima analisi, lo Stato gode di piena autonomia per quanto riguarda la sua organizzazione politica ed un eventuale intervento della Chiesa in tale campo sarebbe un indebita ingerenza.
D’altra parte, la “sana laicità” comporta che lo Stato non consideri la religione come un semplice sentimento individuale, che si potrebbe confinare nel solo ambito privato.
Al contrario, la religione essendo anche organizzata in strutture visibili, come avviene per la Chiesa, va riconosciuta come presenza comunitaria pubblica.(4)




2. La presenza della fede nell’ordinamento giuridico italiano

L’esempio dell’interazione del piano giuridico con il piano fideistico è riscontrabile nella Carta Costituzionale del 1948.
Infatti, essa riserva ben 4 articoli al fenomeno religioso.
Art. 7 - «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.»
Art. 8 - «Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti sono regolati per legge sulla base di intese con le relatìve rappresentanze.»
Art. 19 - «Tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale od associata, di fame propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.»
Art. 20 - «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.»
A proposito dì questo ultimo articolo è facile rilevare come esso trovi la sua ispirazione nella volontà di impedire per l'avvenire provvedimenti legislativi persecutori contro gli enti ecclesiastici, come è avvenuto nel passato per le leggi eversive dell'asse ecclesiastico.
Ritornando poi all'art. 8, va osservato che esso costituisce un progresso rispetto allo Statuto Albertino per il quale le confessioni diverse dalla cattolica erano semplicemente «tollerate». Tuttavia permane una differenza fra la confessione cattolica e le altre confessioni.
Mentre nessun limite pone lo Stato all'organizzazione nel territorio italiano della Chiesa cattolica, all'infuori di quelli posti dalle leggi di attuazione dei Patti lateranensi, per le altre confessioni, invece, si esige espressamente che la loro organizzazione non contrasti coi principi dell'ordinamento giuridico del nostro paese.
In attesa che vengano stipulate le intese previste da tale norma, le leggi che disciplinano i rapporti con le confessioni non cattoliche sono la legge 24-6-1929 n. 1159 ed il R.D. 28-2-1930, n. 289 (rispettivamente legge e regolamento sui «culti ammessi»); tali testi legislativi però, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, non possono trovare applicazione per le parti che risultino ora in contrasto con i principi da essa posti: ad esempio non è più richiesta l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi ed oratori per l'esercizio del culto e non si richiede neanche che le riunioni religiose di culti acattolici siano obbligatoriamente presiedute od autorizzate da un ministro del culto, la cui nomina sia stata approvata dal Ministero competente.
La prima concreta attuazione all'art. 8 della Costituzione, per quanto riguarda l'adozione di intese, si è avuta con la legge 11-8-1984 n. 449, che ha dettato le «Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese».
Per la verità, di provvedimenti adottati per legge sulla base di intese ve ne erano già stati nel nostro ordinamento: si tratta delle leggi n. 580/1961 e 669/1973, che estendevano ai ministri di culto delle varie confessioni le forme di assicurazione e di previdenza sociale previste per altri lavoratori. Si era trattato, peraltro, di accordi di portata assai limitata; l'intesa con la Tavola Valdese è invece un accordo globale che regola tutte le materie «comuni», in esatto parallelo con il Concordato con la S. Sede. Ed il parallelismo è stato assoluto anche nei tempi: l'apertura delle trattative per l'intesa fu annunziata, infatti, al Parlamento dall'allora presidente del Consiglio on. Andreotti, alla fine del 1976, contemporaneamente alla prima relazione sulle appena avviate trattative per la revisione del Concordato. E la firma dell'intesa ad opera del presidente del Consiglio Craxi e del moderatore della Tavola Valdese, Bouchard, è avvenuta il 21-2-1984, tre giorni dopo la sottoscrizione dell'accordo di revisione del Concordato.
Nell'iter parlamentare si è invece rotta questa contemporaneità.
Nell'agosto 1984 la legge di approvazione dell'intesa è stata approvata in via definitiva, mentre quella di ratifica del Concordato era votata solo da uno dei due rami del Parlamento (ed è stata approvata definitivamente solo nel marzo 1985).
L'approvazione della legge n. 449 non esaurisce affatto la questione delle intese con le confessioni diverse da quella cattolica. Essa riguarda, infatti, un numero limitato di chiese e di cittadini non cattolici; per le altre confessioni, diverse da quella cattolica e non rientranti nel Patto di integrazione stipulato fra le chiese valdesi nel 1975, rimane, quindi, in vigore la legislazione sui «culti ammessi» del 1929/30 di cui s'è detto.
Trattative per la stipulazione di un'intesa sono in corso dal 1977 con l'Unione delle comunità israelitiche e sono state avanzate richieste da numerose altre confessioni.
Ma il recepimento dei problemi connessi alla presenza fideistica nella vita del cittadino non si limitano a queste massime previsioni.
Un numero elevatissimo di norme, sparse un po' dovunque, si occupano della materia e tentarne l'elencazione sarebbe praticamente impossibile:
- nel TULPS si ritrovano norme circa la distribuzione di stampati, le questue, le cerimonie religiose e le processioni ecclesiastiche;
- nel T.u. della legge comunale e provinciale si ritrovano regole per le spese per gli edifici serventi al culto pubblico e per la salvaguardia degli interessi diocesani;
- nel T.u. delle leggi sul reclutamento dell'esercito vi sono norme apposite per il servizio alle armi di coloro che siano allievi di istituti cattolici in Italia o all'estero e che si trovino nelle missioni;
- del codice civile va’ rammentato l'art. 629, relativo alle «disposizioni in favore dell'anima»;
- del codice di procedura civile l'art. 5141 che dichiara assolutamente impignorabili le cose sacre e quelle che servono all'esercizio del culto;
- del codice penale gli artt. 61 n. 9 e 10, che della qualità di ministro del culto fanno una circostanza aggravante comune del reato, sia dal punto di vista attivo che passivo; l'art. 327 ult. comma, che considera tale qualità come motivo di specifica incriminazione del delitto di eccitamento e vilipendio delle istituzioni, delle leggi e degli atti dell'autorità, commesso da P.u.; gli artt. 402-406 che contemplano i delitti contro la religione cattolica e i culti ammessi;
- del codice di procedura penale in particolare vanno segnalate le norme che concernono l'esame testimoniale: v. l'art. 356, II comma, che prevede che, nell'ipotesi debba essere assunto in qualità di teste un cardinale, tanto debba avvenire nel luogo da lui designato; v. l'articolo 352, che prevede l'impossibilità di obbligare i ministri della religione cattolica o di culto ammesso nello Stato a deporre «su ciò che fu loro confidato o è pervenuto a loro conoscenza per ragioni del proprio ministero»; particolarmente interessante in merito la sentenza della sez. I della Corte di Cassazione del 17-12-1953, che ha stabilito come il ministro del culto cattolico abbia facoltà di astenersi dal deporre su ciò che gli viene confidato sotto il sigillo della confessione anche se il confidente lo abbia sciolto dal vincolo.
Accanto alle norme scritte, riprova vitale della continua intersezione fra mondo del diritto e mondo della fede è l'esistenza di strutture amministrative specificatamente create per occuparsi dei loro rapporti.
Com'è noto, con due RR.DD. del 1932 venne operato il passaggio dei servizi concernenti gli affari di culto dal Ministero della giustizia a quello dell'interno, devolvendo, per quanto riguarda l'amministrazione periferica, i poteri e le facoltà, già spettanti alle procure generali presso le corti d'appello, alle prefetture.
Presso il Ministero dell'interno sono costituite la Direzione generale degli affari di culto (che interviene, fra l'altro, nella disciplina giuridica e nel controllo sulla attività economica degli enti ecclesiastici) e la Direzione generale del fondo per il culto e del Fondo di religione e di beneficenza per la città di Roma, che amministra patrimoni legati alla materia ecclesiastica; le prefetture godono poi di competenze per l'esercizio della vigilanza su tutte le istituzioni di culto comprese nella circoscrizione territoriale, per il compimento delle istruttorie relative a tutti gli affari in materia di culto, per le autorizzazioni per gli acquisti a titolo oneroso o gratuito da parte degli enti ecclesiastici al di sopra di un certo valore etc.







3. Lo Stato laico è rispettoso delle radici culturali-religiose del popolo italiano

All’indomani dell’unità d’Italia, Massimo d’Azeglio pronunciò la celebre frase: ”L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”.
Questa locuzione testimonia il tipico giro mentale degli ideologi a tavolino, che creano quel che prima non c’era (5).
Dunque a sentir d’Azeglio non c’erano né l’Italia nè gli italiani prima del Risorgimento.
Mai affermazione fu più sbagliata in quanto gli italiani erano “fatti” già da tempo….
Ovviamente, l’italianità non era nè una questione di confini e né tanto meno di lingua.
Cos’è che teneva unito un pescatore di Mazara del Vallo con un contadino di Brescia prima del 1861?
Non certo il medesimo Stato, dato che il primo era un suddito del Regno delle Due Sicilie e l’altro del Lombardo-Veneto, nè benché meno la stessa lingua, in quanto la penisola pullulava di dialetti-lingue eterogenei.
Ciò che teneva uniti questi due uomini, così come i loro antenati era semplicemente il Cristianesimo.
Infatti, la tradizione cristiana, cominciò a rappresentare il collante dei popoli italici fin dall’Editto di Costantino nel 313 D.C. (6) per poi perpetuarsi nel corso dei secoli.
Nemmeno con la fine dell’unità politica avvenuta con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 D.C.), gli abitanti della penisola Italica, smarrirono questo legame.
Anzi, seppur dispersi in mille Comuni, e governati da mano straniera, rimasero sempre un sol popolo in virtù della fede in Cristo.
In spregio a questa realtà, e con l’intento di creare uno stato massone, nel 1861, Garibaldi, consegnava l’Italia nelle mani del Conte di Cavour e di Vittorio Emanuele II, rispettivamente, primo ministro e sovrano del Regno di Sardegna (lo stato meno italiano di tutti)
Questi ultimi, dopo anni di sforzi, riuscirono finalmente nell’intento di creare un “Grande Piemonte” mascherandolo in Regno d’Italia: i soldi per annettere (7) le rimanenti regioni italiche li trovarono espropriando in primis i beni allo Stato Pontificio;
Ma l’impresa di creare uno Stato neutro e massone naufragò miseramente in quanto XV secoli di cristianesimo non furono facilmente liquidabili, nemmeno prendendo a cannonate Porta Pia.
Dopo l’8 settembre 1943 ci provarono i partigiani comunisti della “Brigata Garibaldi”, a fare piazza pulita di preti (8), e a sradicare l’identità cristiana degli italiani, ma anche qui il tentativo fallì per la forte resistenza popolare.
La Repubblica italiana sorta nel 1946, rinunciava all’idea della neutralità tout court, ossia dell’indifferenza verso il fenomeno religioso tanto che la Costituzione del 1948 riconosceva non solo formalmente ma anche sostanzialmente queste radici così forti e questo legame antico con i successori di Pietro, pur comprendendo e tutelando tutte le altre religioni.
Alla luce di questa premessa storica, la Corte Costituzionale sollecitata più volte sul tema, affermava nel 1989, che il principio di laicità «implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; infatti «l’attitudine laica dello Stato-comunità… risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» (9)
Nonostante il dictum della Corte Costituzionale, la questione della laicità rimase sempre aperta, arricchendosi di ulteriori contrasti creati ad hoc dai laicisti per tentare di espungere dalle Istituzioni le radici cristiane.
Il fronte, si spostò, quindi, sui simboli del cattolicesimo e la “querelle” sul crocifisso è emblematica in tal senso.
Già nel 1988 il Consiglio di Stato si era occupato “della questione del crocifisso” con un Parere (n. 63) che, nel ritenere ancora in vigore le disposizioni sull'esposizione contenute nei Regi decreti risalenti agli anni '20, aveva toccato gran parte dei temi evocati e suscitato un ampio e serrato dibattito tra i fautori della liceità/opportunità dell'esposizione e i sostenitori della opposta posizione.
Ad infiammare il dibattito in Italia e ad indirizzare la Suprema Corte verso la rimozione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici fu una dichiarazione di incostituzionalità dell'esposizione obbligatoria di croci o crocifissi nelle aule delle scuole pubbliche elementari prevista da un regolamento del Land della Baviera (10)
A cui seguì la presa di posizione in tal senso:
a) della Corte di Cassazione, la quale, con la pronuncia del 1 marzo 2000, n. 439 assolveva uno scrutatore che si era rifiutato di prestare l'ufficio a cui era stato chiamato perché nel seggio presso il quale era stato nominato, un'aula scolastica, era presente un crocifisso;
b) del Tribunale dell’Aquila, il quale, ordinava la rimozione del crocifisso da un'aula scolastica del comune di Ofena (Tribunale di l'Aquila, 23 ottobre 2003);
L'ordinanza della Corte Costituzionale n. 389/2004, con le sue argomentazioni strettamente tecniche, trattò la questione in maniera “pilatesca” suggerendo un generale abbassamento dei toni.
A mettere la parola fine su questa “querelle” fu il Consiglio di Stato, il quale statuiva che:
“Il crocifisso è un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi: se in un luogo di culto esso è propriamente ed esclusivamente un simbolo religioso, nelle aule scolastiche esso è, invece, un simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori civili di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana e delineano, secondo i principi espressi dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost., la laicità nell'attuale ordinamento dello Stato. Sicché la decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari (art. 118 R.D. n. 965/1924), di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano” (11)
Questa sentenza chiarisce definitivamente due concetti fondamentali:
1) Lo Stato laico non può essere uno stato neutro ed indifferente verso il fenomeno religioso.
2) Il crocifisso è un valore della civiltà italiana ed al contempo il simbolo della tolleranza per altre fedi.



4. Il laicismo cattolico

“Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo” (Gv 15-19)
Questo passo evangelico la dice lunga sulla modalità d’impegno che dovrebbe contraddistinguere i cattolici quando si interessano della polis.
Soprattutto sui temi etici, l’elettorato cattolico sia attivo che passivo non dovrebbe assecondare le logiche del mondo e invece…..
…Puntualmente da quarant’anni, l’associazionismo cattolico si divide, e la divisione, sappiamo che è segno del maligno.
La questione parte dal 1968, anno di pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae, con la quale il Servo di Dio Paolo VI, pronunciava il celebre “non possumus” sancendo l’illiceità su ogni forma di regolazione delle nascite, ricordando la doppia natura del matrimonio: unitivo e procreativo.
Nella stessa si affermava inoltre che la Chiesa non insegna soltanto quanto rivelato da Dio attraverso le sacre scritture, ma anche quanto riguarda la natura, perché Dio che si è rivelato in Cristo è lo stesso che ha creato l’uomo e il mondo, iscrivendo nella creazione una legge appunto naturale, finalizzata al bene supremo, che è Dio stesso, e il cui rispetto comporta anche il benessere (lo “stare bene”) della società.
Roba da antiquariato, per certi teologi progressisti, i quali seguiti da una buona fetta di episcopato e laicato cattolico, manipolando i contenuti riformatori del Concilio Vaticano II affermarono che la chiesa post-conciliare doveva voltare pagina, essere al passo con i tempi, ma soprattutto non intromettersi più nelle questioni pubbliche.
Per attuare questo progetto, hanno coniato la “scelta religiosa” con la quale hanno reso innocua e docile l’Azione Cattolica, relegando nelle sacrestie a svolgere compiti propri dell’oratorio, colei che aveva con PierGiorgio Frassati, Alberto Marvelli, Armida Barelli e tanti altri….realizzato “materialmente” il fine apostolico della Chiesa con l’impegno civile e politico, sempre a fianco della Gerarchia ecclesiatica (come del resto recita ancor oggi l’art. 1 dello statuto di A.C.)
E’ opportuno al riguardo ricordare a quei cattolici che hanno perso la memoria storica, che senza l’azione capillare, parrocchia per parrocchia, dei Comitati Civici, promossi dall’Azione Cattolica di Luigi Gedda, la Democrazia Cristiana di De Gasperi nelle elezioni del 1948 difficilmente si sarebbe affermata e l’Italia di conseguenza sarebbe finita nel blocco sovietico!
Altro che calciobalilla e ping pong degli anni ‘70!
Sul semplice piano contabile, il risultato della «scelta religiosa» (12) fu il crollo delle iscrizioni all’Azione Cattolica, che passarono da tre milioni a seicentomila.
Ma, sul piano umano, data la rete capillare di cui l’associazione disponeva nelle parrocchie, il risultato fu una formazione sempre più intimistica e intellettuale che condusse i cattolici a pensare di poter fare ognuno per sé o per la propria parte politica: in sostanza, a non essere più Chiesa.
All’inizio, solo sul piano dell’azione; poi anche su quello della teologia e della dottrina.Infatti, gli istituti del divorzio e dell’aborto, diventarono legge dello Stato grazie al voto di una parte cospicua dei cattolici, gli stessi che appoggiarono Rosy Bindi, circa un’anno fa, nella proposizione del disegno di legge sui DICO.
La stessa On. Bindi, esponente di spicco del cattolicesimo-democratico (corrente risalente a Dossetti che si pone l’obiettivo di trovare una sintesi tra il Vangelo e il Mondo), interpellata sui DICO affermava: «Io amo pensare alla Chiesa che si occupa delle cose di Dio», invitando cortesemente i vescovi a farsi gli affari propri, aggiungendo altresì, che il compito della politica non é affermare una verità e un bene sull’uomo, ma raggiungere un punto di sintesi.
In realtà, “nell’esistenza di un laico-cattolico non possono esserci due vite parallele: da una parte la vita cosiddetta spirituale con i suoi valori e le sue esigenze; e dall’altra la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia e di lavoro, dei rapporti sociali e dell’impegno politico e della cultura.
Tutti i campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico del rivelarsi e del realizzarsi dell’amore di Gesù Cristo a gloria del Padre e del servizio dei fratelli” (13) .
Pertanto non è importante per il laicato cattolico essere di Comunione e liberazione anziché di Azione cattolica, o della Comunità di Sant’Egidio oppure dei Focolarini……… così come non era importante duemila anni fa essere di Pietro o di Paolo…..
Di vitale importanza è che tutto l’associazionismo cattolico, non segua se stesso ma il Santo Padre alla stessa stregua degli Apostoli, i quali pur nella loro diversità di carismi hanno seguito Cristo, senza condizioni e sino alla fine!


5. Il Diritto non è la normazione del desiderio umano. La questione della famiglia e la decisione di coscienza degli Onorevoli Palmiro Togliatti e Leonilde Iotti.


In un epoca storica, in cui la brama dei desideri cresce smodatamente giorno dopo giorno: si pensi alla pratica della zoofilia, legale in Olanda fino al 14 marzo scorso, al partito dei pedofili (NVD Amore del prossimo, libertà e diversità) che vuole introdurre la liberalizzazione della pornografia infantile e i rapporti sessuali tra adulti e bambini, o alla legge introdotta da poco, sempre dal Parlamento di Amsterdam che permette di fare sesso nei parchi.
Ormai siamo vicini alla rottura delle regole e al ritorno dell’homo homini lupus!
Di fronte a questo irrefrenabile decadentismo civile e morale verrebbe da chiedersi, ma cosa ne è stato del diritto!
S. Tommaso d’Aquino, con un acume da fine giurista asseriva che “la legge è un ordinamento della ragione rivolto al bene comune, proclamato da colui che ha il governo di una comunità” (14)
Ma il concetto di bene comune è stato progressivamente sostituito dal concetto di bene individuale, inteso come coacervo di impulsi, passioni e desideri che vanno a collidere contro ogni tipo di organizzazione umana.
Questo spostamento del diritto dall’oggetto al soggetto ha portato all’asservimento dello stesso ai desideri dell’Uomo distogliendolo dalla sua funzione primaria: produrre leggi sempre più perfette che assicurino ed educhino gli uomini alla convivenza come comunione (15)
In sintesi, il diritto in uno Stato laico dovrebbe promuovere l’affermazione dell’Uomo “in quanto è” e non dei suoi impulsi”
In Italia, il dibattito sull’allargamento della platea dei diritti individuali ha toccato principalmente la famiglia, e, a differenza di quanto affermano i promotori del disegno di legge sui DICO (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi) nel nostro Paese sostanzialmente, esiste già il diritto di convivere più o meno stabilmente con chicchessia.
Il nostro ordinamento giuridico infatti ammette tre tipi di convivenze:
1)Famiglia legittima fondata sul matrimonio civile o concordatario
2)Convivenza “more uxorio” riguardante coppie etero-sessuali
3)Convivenza di tipo omosessuale
Delle tre, solo la prima e disciplinata dalla Costituzione, la quale all’art. 29 statuisce che: ”La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Inoltre la stessa Carta costituzionale, proprio per l’alto compito che riconosce alla famiglia fondata sul matrimonio, pone ai governi che si succedono nel corso delle legislature l’ulteriore obbligo di “agevolarne” la formazione.
Difatti l’art. 31 recita: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità e l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo
Badate bene, la nostra Costituzione, non è di natura confessionale, non l’ha redatta il Sommo Pontefice, bensì costituenti di varie estrazioni culturali: liberali-cattolici-azionisti-socialisti-comunisti, i quali hanno saputo ragionevolmente riconoscere nella famiglia la cellula embrionale dello Stato.
In seno all’Assemblea Costituente, si occuparono della redazione dell’art. 29 tra gli altri:
A. Moro (DC), P. Togliatti e L. Iotti (PCI), L. Basso e P. Rossi (PSI), F. Lucifero (monarchici), Mastrojanni (Uomo qualunque)…..insomma politici eterogenei tra di loro…
La formula: ”La famiglia è una società naturale” fu adottata dalla I sottocommissione quasi all’unanimità su proposta dell’On. Togliatti.
Per “naturale” s’intende, sempre a detta dei padri costituenti: ”Escluso che qui naturale abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto, non si vuol dire con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico…con le sue leggi e i suoi diritti…. di fronte al quale lo Stato si deve inchinare. (16)
Qui si evincono due principi fondamentali:
1) esclusione di un legame di fatto
2) ente razionale etico
Colpisce come dei “non credenti”, militanti nel Partito Comunista Italiano, come gli On.li Palmiro Togliatti e Leonilde Iotti, legati in questo periodo da una relazione sentimentale (17), diremmo oggi, “di fatto”, non abbiano tentato di introdurre nell’art. 29 l’equiparazione tra la famiglia fondata sul matrimonio e la convivenza “more uxorio”, votando, altresì, in favore della prima.
Molti, potrebbero addurre come causa del loro comportamento, la non maturità dei costumi italiani per recepire una simile scelta.
Ma la verità è un’altra!
A prescindere dalla loro ideologia, questi due eminenti personaggi hanno sempre avuto nel corso della loro esistenza un forte senso dello Stato Apparato e siccome quest’ultimo è solido quando ha un tessuto di famiglie certe e stabili, hanno optato per l’unica soluzione ragionevole capace di assicurare un futuro alla società italiana.
Questo vuol dire, cio che Benedetto XVI definisce “allargare la ragione”.
Ecco perché, la Costituzione garantisce e favorisce solo la famiglia fondata sul matrimonio, per i suoi caratteri di certezza e stabilità.


6. Pace: Non solo diritti ma anche doveri umani.

Sembra incredibile ma nel 2008, si insiste ancora sul vecchi cliché culturali, tra i quali l’assolutismo della Ragione.
Eppure il XX secolo ha dimostrato ampiamente che:
-una ragione senza fede genera mostri come le ideologie totalitarie (nazismo, fascismo e comunismo) e due guerre mondiali;
-una fede senza ragione fomenta i fondamentalismi e la jihad.
La “relativizzazione” e la perdita dell’identità da parte degli Stati occidentali costituisce un grave ostacolo sul cammino del dialogo e della Pace con gli altri popoli della Terra.
Prima di porsi il problema del dialogo con un’altra religione o più in generale con quisque de populo, occorrerebbe preliminarmente conoscere le proprie radici culturali e religiose, onde evitare di andare incontro all’altro senza memoria, con il fondato rischio di farsi colonizzare o di relativizzare le fondamenta!
Atteggiamento da scongiurare in quanto il sistema democratico che si vorrebbe esportare su scala planetaria esige la comunione tra le diverse identità presenti che convivono nel rispetto di un quadro normativo formato da diritti e doveri.
La Pace su questa Terra è possibile, a patto che si fondi su pilastri stabili, altrimenti sarà sempre la solita tregua tra due conflitti.
I diritti umani, quelli per intenderci codificati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sono di per sè insufficienti per creare un’ordine stabile nel mondo.
Affinché ci sia equilibrio occorrerebbe creare un sistema di check and balances che rispetti la legge naturale: quella che Dio ha inscritto nel cuore di ogni Uomo (credente o ateo).
“Il cuore di un ragazzo giapponese infatti è lo stesso di un ragazzo italiano. Esprime le stesse domande e la stessa sete di Verità “ (18).
Urgono insomma anche i doveri umani, come “il rispetto della vita dal concepimento fino al termine naturale, diritti dell’embrione, libertà di educazione, tutela sociale dei minori, promozione della famiglia (fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso e protetta nella sua unità e stabilità a fronte delle moderni leggi sul divorzio), liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù (droga, sfruttamento della prostituzione), libertà religiosa, sviluppo di un economia che sia a servizio della persona” (19)
L’esperienza insegna quindi che Ragione e Fede prese singolarmente non bastano.
Pertanto, la sfida di questo nostro tempo, lanciata dal grande Papa Benedetto XVI e raccolta da un sempre maggiore numero di intellettuali e politici, non solo di casa nostra, è quella di “allargare la ragione” (20) in modo da permettere alla fede di illuminarla.
Solo in questo modo riusciremo nell’intento di creare una società rispettosa dell’Uomo.
Fede e Ragione, in estrema sintesi, non sono entità incompatibili, come vorrebbero far credere i laicisti (21) ma interagiscono continuamente avendo come trade-union, il diritto, strumento essenziale, per dare un ordine alle cose.



Conclusioni.

Orbene, al termine di questo excursus, che ha posto in evidenza il valore di una sana laicità, che non pregiudica i non credenti e di converso i limiti di un laicismo ottuso e cieco, possiamo riassumere quanto nella trattazione emerso, come segue:
-In primis, non ci può essere uno Stato laico, anzi non si può parlare nemmeno di laicità senza la garanzia che tutti possano esprimere liberamente il proprio pensiero;
-La laicità non è indifferente nei confronti della Fede e non costituisce una cappa neutra da calare indifferentemente sullo Stato x anziché quello y. Essa deve essere permeabile alle specifiche tradizioni culturali e religiose che variano da popolo a popolo, da nazione a nazione e che non possono essere misconosciute;
-Il diritto in uno Stato laico non è la normazione dei desideri dell’Uomo ma è uno strumento atto ad affermare l’Uomo “in quanto è”;
-Lo Stato laico non può essere mai una conventio ad excludendum perchè la “sana laicità” include tutti sia i credenti che i non credenti

(1) ELIOT T.S., Cori da “La Rocca”, ed. Bur
(2) "Magnifico Rettore, con queste poche righe desideriamo portarLa a conoscenza del fatto che condividiamo appieno la lettera di critica che il collega Marcello Cini Le ha indirizzato sulla stampa a proposito della sconcertante iniziativa che prevedeva l'intervento di papa Benedetto XVI all'Inaugurazione dell'Anno Accademico alla Sapienza. Nulla da aggiungere agli argomenti di Cini, salvo un particolare. Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso nella citta di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: "All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto". Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano.In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato".
Tra i firmatari, i fisici Andrea Frova, autore con Mariapiera Marenzana di un libro su Galileo e la Chiesa, Luciano Maiani, da poco nominato presidente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Carlo Bernardini, Giorgio Parisi, Carlo Cosmelli.
(3) LIVATINO R., Fede e Diritto Relazione svolta nella sala-conferenze dell’Istituto delle Suore Vocazioniste a Canicattì, il 30 aprile 1986
(4) UNIONE GIURISTI CATTOLICI ITALIANI, Il Papa ai giuristi cattolici: la Chiesa sostiene una “sana laicità”. Ma oggi c’è un laicismo che vuole confinare Dio nel privato, 09-12-2006
(5) PELLICCIARI A., Risorgimento anticattolico, ed. Piemme; CAMMILLERI R., Il Risorgimento dei persecutori
(6) LATTANZIO, De mortibus persecutorum,cap. XXIV, XXV
(7) PAGANO A. Due Sicilie. 1830-1880. Cronaca della disfatta- ed. Capone, 2002
(8) BERETTA R., Storia dei preti uccisi dai partigiani, ed. Piemme, 2005
AA.VV. Testimoni della verità nell’Italia in guerra,ed. Itaca, 2007
(9) CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 203/1989
(10) BUNDESVERFASSUNGSGERICHT-Erster Senat, 16 maggio 1995
(11) CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI, 13/02/2006 n. 556
(12) PALMARO M., GNOCCHI A, Quei cattolici rinnegati, pubblicato su Il Giornale n. 43 del 20-02-2007
(13) CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, EDB, Bologna, 2003
(14) I QUADERNI DELLA SUSSIDIARIETA’, Famiglia e Dico:una mutazione antropologica? Ed. Tracce, 2007
(15) GIUSSANI L., Il cammino è al vero un esperienza, rcs libri, 2006
(16) ASSEMBLEA COSTITUENTE, Commissione per la Costituzione, Resoconto Sommario della seduta di mercoledì 15-01-1947
(17) CORRIERE DELLA SERA, Archivio storico, Iotti Togliatti una love story più forte del PCI, 19-07-1993 p.5
(18) CAMPAGNOLI N., Convegno sul Rischio educativo di don L. Giussani, Lesina (Fg) 16-03-2007
(19) CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale su alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, EDB, Bologna, 2003 p. 13
(20) HABERMAS J.- RATZINGER J. Ragione e fede in dialogo, ed. Marsilio, 2005
(21) HUME D.Dialoghi sulla religione naturale, ed. il nuovo melangolo, 1996
ODIFREDDI, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) ed. longanesi, 2007, AUGIAS C.- PESCE M., Inchiesta su Gesù. Chi era l'uomo che ha cambiato il mondo, ed. Mondatori, 2006

giovedì 17 luglio 2008

Introduzione nel codice penale del reato di stalking (art. 612 bis)


Il18 giugno 2008, il Consiglio dei Ministri ha finalmente approvato il disegno di legge che predispone le misure contro gli atti persecutori, introducendo nel codice penale la fattispecie del reato di stalking (art. 612 bis c.p.).
E' prevista la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da
-cagionare un perdurante e grave stato di ansia;
-cagionare un perdurante e grave stato di paura;
-ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria;
-ingenerare un fondato timore per l'incolumità di persona al medesimo legata da relazione affettiva;
-costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Circostanze aggravanti sono:
-la commissione del reato ad opera del coniuge legalmente separato;
-la commissione del reato ad opera del coniuge divorziato;
-la commissione del reato ad opera di persona che sia stata legata da relazione affettiva;
-l'essere, il soggetto passivo, un minore (pena aumentata fino alla metà);
-il ricorrere delle circostanze aggravanti di cui all'art. 339 c.p.
(pena aumentata fino alla metà).
Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo la procedibilità d'ufficio ove ricorrano le menzionate aggravanti e qualora sia connesso con altro delitto per il quale si debba procedere d'ufficio. È prevista la procedibilità d'ufficio per il reato di cui all'art. 612 bis c.p. anche qualora il delitto sia commesso da soggetto ammonito. La vittima-persona offesa può, infatti, esposti i fatti al questore, avanzare una richiesta di ammonimento nei confronti dell'autore della condotta e di tale ammonimento orale verrà redatto processo verbale . Inoltre se il reato di cui all'art. 575 c.p. è commesso da soggetto in precedenza responsabile della commissione di atti persecutori ai sensi dell'art. 612 bis c.p. nei confronti della vittima si applicherà la pena dell'ergastolo.Per quanto concerne le modifiche apportate al codice di procedura penale, innanzitutto, viene esteso al reato de quo quanto prescritto ex art. 266 c.p.p.. L'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi al reato di (atti persecutori). È stata introdotta con l'art. 282 ter c.p.p. una misura cautelare personale coercitiva consistente nel divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Con il provvedimento che dispone tale divieto il giudice prescrive all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati o di mantenere una distanza determinata dai medesimi luoghi o dalla persona offesa.Il giudice, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi frequentati da prossimi congiunti della persona offesa, da persone conviventi con questa o legate da relazione affettiva o può prescrivere di mantenere una distanza determinata da tali luoghi o da tali persone .Quanto prescritto al comma 1 bis dell'art.392 c.p.p. è esteso all'art. 612 bis. Il p.m. o la p.s.i. possono chiedere si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minore di anni sedici.Modificate anche la formulazione dell'art. 398 c. 5 bis c.p.p. e dell'art. 498 c. 4 ter c.p.p..Nel caso di indagini che riguardano ipotesi di reato previste dagli articoli 600, 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all'art. 600 quater.1, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies e 612 bis del codice penale, il giudice, ove fra le persone interessate all'assunzione della prova vi siano minorenni, con l'ordinanza di cui al comma 2, stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all'incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario od opportuno. A tal fine l'udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l'abitazione della persona interessata all'assunzione della prova. Le dichiarazioni testimoniali debbono essere documentate integralmente con mezzi di produzione fonografica o audiovisiva. Quando si verifica una indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provvede con le forme della perizia ovvero della consulenza tecnica. Dell'interrogatorio è anche redatto verbale in forma riassuntiva. La trascrizione della riproduzione è disposta solo se richiesta dalle parti.Infine, quando si procede per i reati di cui agli articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies e 612 bisdel codice penale, l'esame del minore vittima del reato ovvero del maggiorenne infermo di mente vittima del reato viene effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante l'uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico .Secondo l'indagine realizzata dall'Istat nell'anno 2007 sulla violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia l'anno 2006” con un campione rappresentativo di 25 mila donne fra i 16 e i 70 anni, il 18,8% ha subito violenza fisica, sessuale o atti persecutori da parte di un ex partner.Quasi il 50% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale ha subito anche comportamenti persecutori. Il 68,5% dei partner ha cercato insistentemente di comunicare con le donne. Il 61,8% ha chiesto ripetutamente appuntamenti per incontrarle.Il 57% le ha aspettate fuori dalle proprie abitazioni, da scuola, o dal luogo ove svolgevano la propria attività lavorativa.Il 55,45% ha inviato messaggi, telefonate, e-mail, lettere o regali indesiderati.Il 40,8% le ha seguite o spiate .Sembrerebbe possibile, ora, con la configurazione del reato di stalking, dare una risposta forte, unitaria e più efficace alle menzionate condotte.
Il questore valuterà l'eventuale adozione di provvedimenti concernenti armi e munizioni.
Quando la frequentazione di tali luoghi è necessaria per motivi di lavoro o per esigenze abitative, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni.
All'art. 342 ter c.3 c.c. le parole (sei mesi) sono sostituite da (dodici mesi).

martedì 8 luglio 2008

Non costituisce più reato la detenzione dei supporti musicali privi del contrassegno S.I.A.E.


Corte di Cassazione - sezione III penale – Sentenza 12 febbraio-2 aprile 2008, n.13816

Mediante alcune apprezzabili sentenze, la giurisprudenza di legittimità si è di recente occupata della specificazione degli effetti penali conseguenti ad una nota pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 8 novembre 2007 in proc.C-20/05, Schwibbert), secondo la quale le disposizioni nazionali susseguenti all’entrata in vigore della direttiva comunitaria n.189 del 1983 (leggi sul diritto d’autore), che impongono la necessaria apposizione del contrassegno SIAE ai supporti informatici, rappresentano invero una mera “regola tecnica” che, per rendersi concretamente operante e opponibile ai terzi, deve ineluttabilmente essere notificata alla Commissione UE.
Da ciò consegue che in difetto della predetta notificazione, l’eventuale instaurazione di un procedimento penale per il reato di cui all’art.171-ter, comma 1, lettera d) della legge sul diritto d’autore n.633/41, che punisce appunto, tra l’altro, la condotta di detenzione di supporti privi del regolare contrassegno Siae, non potrà che sfociare in un giudizio finale di assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
La decisione in commento, nella specie, si inserisce in questo angolo di visuale alla luce della sentenza emessa dalla Corte di giustizia europea, optando per la deresponsabilizzazione delle condotte afferenti la norma di legge appena citata, qualora il reato effettivamente in contestazione preveda quale suo elemento costitutivo tipico, l’assenza del prescritto bollino Siae.
La Cassazione in particolare, ha dapprima inteso fotografare le argomentazioni sviluppate dalla predetta sentenza Schwibbert, in base alla quale, successivamente all’entrata in vigore della direttiva CEE n.159/83 istitutiva della procedura di informazione comunitaria nell’ambito delle normative e delle regolamentazioni tecniche, la necessaria apposizione del contrassegno Siae sui dischi compatti riproducenti opere d’arte figurative in funzione della susseguente commercializzazione nei paesi membri dell’UE, realizza una semplice“regola tecnica”, che non può assolutamente essere fatta valere nei confronti dei privati qualora non sia stata previamente notificata alla competente Commissione della Comunità europea.
Il significato di “regola tecnica” invero, era già stato fornito da altra direttiva (98/34/CEE), come “requisito di un prodotto la cui osservanza è obbligatoria, de iure e de facto, per la sua commercializzazione”.
Dopo essersi ulteriormente soffermata sulle varie disposizioni legislative stratificate nel tempo in materia di diritti d’autore, la Cassazione ha ulteriormente chiarito di non poter aderire all’enunciato difensivo espresso dal Governo italiano e dalla Siae, parti in causa dinnanzi alla Corte di giustizia europea, secondo cui il contrassegno obbligatorio sulle opere dell’ingegno era stato costituito molto tempo prima dell’entrata in vigore della direttiva CEE del 1983, precisamente con la legge n.633 del 1941 e con il R.D. 18 maggio 1942, n.1369, mentre le modifiche intervenute successivamente con le correzioni legislative apportate nel 1987 e nel 1994, null’altro hanno potuto istituire se non semplici “adeguamenti ai processi tecnologici intervenuti nel frattempo nella produzione dei supporti”.
A ben vedere infatti, secondo l’insindacabile giudizio degli ermellini le richiamate disposizioni di cui agli articoli 123 della legge 633/41 e 12 del R.D. 1369/42, regolano solamente l’obbligo di apposizione del contrassegno Siae su supporti di tipo cartaceo (stampa) di opere dell’ingegno di qualsiasi tipo (letterale, musicale, figurativo, ecc.), stabilendo altresì l’obbligo delle associazioni degli editori di applicarlo tramite la Siae su ogni esemplare, a meno che lo stesso autore non vi provveda personalmente apponendovi personalmente la propria sottoscrizione autografa.
Ciò tuttavia, deve inevitabilmente comportare un mutamento della “regola tecnica” – da assoggettare nuovamente alla valutazione della Commissione – qualora il supporto divenga da cartaceo a magnetico, plastico, ovvero di altro materiale e, di conseguenza, venga a variare il sistema di fissazione dell’opera sul supporto medesimo (fonoregistrazione, videoregistrazione, ecc.).
La decisione della Corte di giustizia europea nel caso Schwibbert, in buona sostanza, ha finito per apportare un notevole influsso sulla tematica della tutela penale dei diritti d’autore, posto che la stessa ha istituzionalizzato alcuni fondamentali principi, quali:
a) la riconduzione dell’obbligo di applicazione del contrassegno Siae nella sola cerchia delle “regole tecniche” che, successivamente alla citata direttiva CEE n.189 del 1983, debbono essere comunicate alla Commissione europea onde permetterne il vaglio di conciliabilità con i principi comunitari della libera circolazione delle merci;
b) l’inapplicabilità verso i privati dell’obbligo di contrassegnare detti supporti, in difetto della comunicazione obbligatoria alla predetta Commissione di ogni istituzione del bollino Siae avvenuta successivamente all’entrata in vigore della direttiva 189/1983, per i supporti di qualsiasi tipo (cartaceo, magnetico, plastico) e contenuto (musicale, figurativo, letterario);
c) la mancata integrazione, di conseguenza, delle fattispecie penali nelle quali l’assenza del contrassegno Siae, in epoca successiva alla direttiva 83/1989/CEE e non comunicato alla Commissione europea, rappresenti elemento costitutivo tipico del reato;
I giudici di legittimità inoltre, per compiutezza, hanno inteso aggiungere che la dimostrazione inerente la circostanza che l’obbligo dell’apposizione del contrassegno Siae sia precedente alla direttiva del 31 marzo 1983, n.189, ovvero - se successiva – che sia stata comunque comunicata alla Commissione europea, incombe in ogni caso alla pubblica accusa tutte le volte in cui detto contrassegno venga delineato come elemento negativo della fattispecie penale in contestazione, non potendo in senso contrario sostenersi alcun giudizio di responsabilità a carico dell’imputato.
A dire il vero, i giudici supremi hanno chiarito che in tali situazioni il fatto tipico esposto dalla norma continuerà ad essere preveduto come reato, ma verrà a difettare in esso l’elemento costitutivo materiale rappresentato dalla inosservanza dell’obbligo di contrassegnare i supporti, che non esisterà più come obbligo.
L’uso illecito di supporti validi in base al diritto comunitario e sprovvisti del contrassegno Siae, continua dunque ad essere apprezzato come reato; tuttavia, qualora i supporti privi del contrassegno Siae non siano ritenuti validi per il diritto comunitario, il fatto di reato non può dirsi sussistere.
La fattispecie penale in tema di diritto d’autore che prevede il contrassegno Siae quale elemento negativo, è quella di cui all’art.171-ter, lettera d) della legge 633/41 (così come modificata dalla legge n.248 del 2000), che sanziona chiunque detenga per la vendita supporti musicali, audiovisivi, cinematografici, ecc., mancanti del contrassegno Siae.
Non può invede considerarsi tale quella di cui all’art. 171-ter, lettera c) della stessa legge sul diritto d’autore (anch’essa come modificata dalla l.248/00), non prevedendo come elemento tipico ed essenziale l’assenza del contrassegno Siae e punendo solamente chi detenga a fini commerciali supporti illecitamente duplicati o riprodotti, pur non avendo concorso alla duplicazione o alla riproduzione.
La mancata apposizione del contrassegno in definitiva, potrà essere eventualmente stimata quale “mero indizio” della illecita attività di duplicazione o riproduzione, ma giammai potrà assumere rango di elemento costitutivo della condotta penalmente sanzionata, se non confortato da ulteriori elementi indiziari gravi e concordanti.
Di per sé sola l’assenza del contrassegno non potrà dunque avere valore di prova, correndosi il rischio altrimenti di seguitare a conferire al predetto contrassegno la specifica qualità di garanzia essenziale dell’originalità e autenticità dell’opera dell’ingegno, nonostante il difetto di comunicazione alla Commissione europea e, di riflesso, la necessaria inopponibilità ai privati. (Si veda: Guida al diritto, 19/08).

mercoledì 2 luglio 2008

Reato di Peculato per il dipendente pubblico che naviga in internet per fini personali


Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con sentenza 21 maggio 2008, n. 20326
La configurabilità del reato di peculato in relazione alla condotta del dipendente pubblico che naviga in internet su siti non istituzionali, scaricando su archivi personali dati e immagini non inerenti alla pubblica funzione (prevalentemente materiale di carattere pornografico), passa necessariamente attraverso l'individuazione del bene giuridico tutelato dall'art. 314 c.p.
Orbene, secondo l'orientamento maggioritario e tradizionale, sia in dottrina che in giurisprudenza, la fattispecie di peculato costituisce un esempio di reato plurioffensivo, in quanto la condotta sanzionata lede non solo il regolare funzionamento dalla Pubblica Amministrazione, ma anche gli interessi patrimoniali di quest'ultima. Corollario di tale impostazione è l'argomentazione per cui l'eventuale mancanza di un danno patrimoniale, conseguente all'appropriazione, non varrebbe ad escludere il reato, considerato che la condotta dell'agente sarebbe comunque in contrasto con l'altro interesse protetto dalla norma, e cioè il buon andamento della Pubblica Amministrazione (Corte di Cassazione, Sezione VI penale, sentenza 24 agosto 1993 n. 8003).Applicando queste coordinate, dunque, è evidente che la condotta del dipendente pubblico che naviga in internet su siti non istituzionali e per fini personali integra pienamente il reato di peculato. Infatti, a tacer d'altro, è sicuramente riscontrabile un vulnus al regolare e corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione che si concretizza nella sottrazione del computer a quella che è la sua normale destinazione giuridica.
Più di recente, invece, la Corte di Cassazione sembra propugnare un nuovo orientamento ritenendo che l'oggetto giuridico del delitto di peculato si identifichi con la tutela del patrimonio della P.A. da quanti sottraggano o pongano a profitto proprio o altrui denaro o cose mobili, rientranti nella sfera pubblica, di cui siano in possesso per ragioni del loro ufficio o servizio. La norma penale presuppone, quindi, che l'azione compiuta configuri una lesione dell'integrità patrimoniale della pubblica amministrazione (Corte di Cassazione, Sezione VI, 19 settembre 2000, n. 10797).Alla luce di siffatto nuovo orientamento, nella fattispecie risulta indispensabile stabilire se il pubblico dipendente abbia arrecato o meno un pregiudizio al patrimonio della pubblica amministrazione per poter ritenere sussistente il reato di peculato. Verifica che va effettuata tenendo conto del concreto assetto dell'organizzazione pubblica, e più precisamente accertando la presenza o meno di una convenzione tra la P.A. e l'ente gestore di internet che preveda un uso illimitato del servizio con tariffa fissa. Un fatto è certo: se dovesse mancare la suddetta convenzione il danno al patrimonio pubblico sarebbe rappresentato dalle spese sostenute dalla P.A. per ogni contatto telefonico effettuato dal dipendente al fine della navigazione su siti non istituzionali. Con l'ulteriore precisazione che il peculato configurabile è quello ordinario e non quello d'uso, atteso che oggetto dell'appropriazione sono le energie (intese come "cosa mobile"), entrate a far parte della sfera di disponibilità della pubblica amministrazione, occorrenti per le conversazioni telefoniche. Diversa la conclusione se, invece, la P.A. avesse stipulato una convenzione a tariffa fissa con l'ente gestore di internet. In tale caso, infatti, il delitto di peculato non sussisterebbe per carenza di lesione dell'integrità patrimoniale della p.a., in quanto quest'ultima sarà tenuta a corrispondere all'ente gestore di internet una determinata somma a prescindere dall'intensità dell'uso del servizio.
La decisione della Suprema Corte. La sesta sezione della Corte di cassazione, con sentenza n. 20326 del 21 maggio 2008, ha annullato con rinvio l'ordinanza del Tribunale del Riesame ed accolto il primo degli orientamenti esposti (e cioè quello sulla natura plurioffensiva del reato di peculato), affermando che "la disposizione dell'art. 314 c.p., oltre a tutelare il patrimonio della pubblica amministrazione, mira ad assicurare anche il corretto andamento degli uffici della stessa….".Di conseguenza, la Corte lascia intendere che, anche se dovesse essere escluso il danno all'integrità patrimoniale per l'esistenza di una convenzione a tariffa fissa, il dipendente pubblico che naviga in internet per finalità personali arreca comunque un pregiudizio al buon andamento della p.a., con susseguente configurabilità del reato ex art. 314 c.p.
Conclusioni. Alla luce di tali osservazioni, sembra opportuno, tuttavia, menzionare l'orientamento che individua il bene giuridico protetto dall'art. 314 c.p. soltanto nell'integrità patrimoniale della p.a., sul rilievo che il «buon andamento» si atteggia ad interesse giuridico di fondo (interesse che caratterizza tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) piuttosto che a specifico bene giuridico tutelato dalla norma sul peculato. Questa conclusione è avvalorata, inoltre, dalla considerazione che i comportamenti come quelli oggetto della decisione in commento – anche se inidonei ad arrecare un danno al patrimonio alla p.a. – non vanno esenti da pena, in quanto possono essere attratti nell'ambito di applicazione dell'abuso d'ufficio (si veda Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 14 novembre 2001, n. 1905).In definitiva, tuttavia, sarebbe utile un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite per porre fine ad un contrasto, relativo appunto all'individuazione del bene giuridico protetto dalla fattispecie di peculato, che non ha una valenza elusivamente dogmatica.

martedì 1 luglio 2008

La res pubblica non è res nullius


"Res nullius" è un'espressione in lingua latina, che significa letteralmente "cosa di nessuno" e si contrappone alla "res pubblica" che vuol dire "cosa di tutti".
La "cosa pubblica" dovrebbe essere oggetto di maggiori attenzioni da parte dei cittadini, proprio perchè la fruibilità è ad appannaggio di tutti.
Invece, quasi sempre ci accostiamo alla "cosa pubblica", intesa nel senso di: laghi, fiumi, parchi, monumenti, con la convinzione errata di trovarci di fronte ad una "cosa di nessuno", suscettibile quindi di atteggiamenti incivili.
In questi giorni, è sotto gli occhi di tutti i lesinesi, la scia biancastra che lambisce la riva del nostro lago.
La causa è dovuta all'abbassamento del livello delle acque per l'elevata temperatura di questi giorni!
La cosa più facile da fare in questi casi è incolpare dell'accaduto, chi ha delle responsabilità politiche, tralasciando di fare una sana autocritica per tutta una serie di atteggiamenti errati, posti in essere in spregio del nostro territorio!
Siamo nel 2008 ed il livello di istruzione si è notevolmente innalzato!
Eppure ci sono concittadini che continuano a riversare nel lago: bottiglie di plastica, sacchetti di immondizia, elettrodomestici, vecchie carcasse di automobili, salsa.....etc.....contribuendo al degrado.
Questi atteggiamenti barbari devono essere assolutamente corretti:
1)Tramite una campagna di sensibilizzazione adeguata, rivolta all'educazione civica dei cittadini;
2)Con la denuncia penale dei trasgressori .
Dura lex sed lex.
- - - - ]]>